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Pani Travagliatu

Fino a non molto tempo fa, nella cultura dei contadini e dei minatori castelterminesi, il vero uomo era colui che “si scuttava ‘u pani” ovvero che mangiava “pani travagliatu”, ottenuto, cioè, con il sudore della propria fronte. Altrimenti si era considerati “pani persu”, “manciapani a tradimentu”, la peggiore categoria dei “manciapani a tradimentu” era poi quella dei “mantenuti”.
I tre epiteti, simili per alcuni versi, si differenziano per alcuni aspetti:
“pane perso” era colui che non riusciva a lavorare, vuoi perché poco dotato, vuoi perché malaticcio, si vergognava della sua involontaria inattività e cercava di nasconderla.
 “mangiapane a tradimento” era il fannullone, il perdigiorno che viveva a spese degli altri, questi era solito ostentare la propria condizione privilegiata.
“mantenutu” era quello che aveva una relazione con una donna, spesso di facili costumi o molto più anziana di lui, che provvedeva al suo mantenimento e alle sue necessità finanziarie.
 
Non si poteva quindi essere uomo stimato se non ci si guadagnava il pane.
 
Nella nostra società la penosità del lavoro dei campi era vissuta con difficoltà dai contadini, che però ringraziavano il cielo di non essere finiti in miniera, oh mammuzza mia nun mi mannari a la pirrera… recitava un triste canto.
A rincuorare contadini e minatori era la consapevolezza che «li peni pi lu pani nun su peni, li veri peni su senza pani». Le pene per procurarsi il pane erano, insomma, un male minore rispetto a quelle della mancanza di pane. Pene necessarie per le quali bisognava ringraziare Dio.
Il pane insomma doveva essere “pani travagliatu”, ogni forma di pane mangiata senza lavoro veniva vista come la negazione dell’essere uomo; il pane sganciato dal lavoro faceva dell’uomo un essere improduttivo, un povero vero.


Bisogna però sottolineare come il lavoro agricolo e quello delle miniere non aveva una giusta remunerazione ed era pesante ai limiti della sopportabilità; braccianti e zolfatai venivano considerati, insieme con il loro lavoro, come inferiori, dando per questo vita a duri movimenti di protesta; infine la lentezza del miglioramento delle condizioni di lavoro spesso esasperava i lavoratori. Eppure questa condizione di dolore e sfruttamento era considerata preferibile a quella di mangiare un pane “non travagliatu”.

La condizione dei minatori era poi particolarmente crudele e paradossale, per poter vivere e far vivere le proprie famiglie erano costretti a seppellirsi vivi. Capita spesso che i figli di minatori parlino del “pane travagliatu” dei loro padri, in una accezione ancora più interessante: i minatori di Casteltermini erano infatti soliti risparmiare un pezzetto di pane o di formaggio, per darlo ai propri figli al ritorno da lavoro. Se chiedete a questi figli, ormai adulti, vi diranno che non c’è cosa al mondo più buona di quel pane che odorava di zolfo, non c’è cosa più buona di quel “pani travagliatu” dei loro genitori.
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