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Mangiare u zitu… per non rimanere zitella! La particolare tradizione di Casteltermini

Stasera mangerete ‘u zitu? sappiate allora che la leggenda vuole che l’origine di questo formato di pasta sia legata alle storie d’amore. Dalle nostre parti il termine zitu vuol dire ragazzo ancora non sposato ma fidanzato. Con ziti si indicano fidanzati, nella doppia variante di ziti ammucciuni, fidanzati ancora non ufficialmente, cioè senza l’intervento delle famiglie; ziti affacciu cioè fidanzati ufficialmente, con il benestare delle famiglie. La ragazza che ha tutto il potenziale per diventare zita ma che ancora non raggiunge questa condizione viene detta zitella. Se il matrimonio non si verificherà entro il giusto lasso di tempo, la potenziale zita passerà da zitella schetta vecchia! Gli ziti anticamente si chiamavano zite perché venivano preparati in occasione dei pranzi di nozze e sancivano l’uscita delle donne dallo “scomodo” ruolo di zitelle.
U zitu è anche detto, sempre dalle nostre parti, maccarrunie a questo nome è collegata una particolare tradizione castelterminese così descritta da Gianfranco Lo Bue nel suo “Le immagini della memoria”.
Anticamente iniziava in questo modo. La notte seguente al martedì di carnevale, subito dopo la mezzanotte, da un balcone di una abitazione della via Cadorna (rione Gesù e Maria), si affacciava un vecchio che suonando una campanella gridava: «Muri, muri». Facendo riferimento alla fine del carnevale.
L’indomani, mercoledì, si faceva il funerale al carnevale che veniva simboleggiato da una persona chiamata ‘u Maccarruni. Questa persona, morta per soffocamento causatogli da uno Zitu andatogli di traverso, durante l’ingordigia nel mangiare questo caratteristico piatto di carnevale che, nella ricetta tradizionale, prevedeva i maccheroni fatti in casa conditi con ragù, cotenna di maiale e pepe.
Il cerimoniale era il seguente ‘u Maccarruni, rappresentato dall’uomo, che doveva fingersi morto, veniva sdraiato su di un carro, simile a quello funebre, e portato in giro per le vie del paese. Lo accompagnava un corteo formato dai familiari, nei quali si distinguevano delle donne, con lunghi veli neri, che piangevano e si disperavano per la scomparsa dell’estinto. Il corteo si concludeva in Piazza Duomo, dove ‘u Maccarruni prodigiosamente risorgeva e si univa agli altri in una sarabanda gioiosa.

Questa tradizione era in qualche modo legata alla famiglia Varsalona, abitante appunto in via Diaz che è la continuazione di via Cadorna.

L’industrializzazione della pasta ci ha portati a dimenticare come veniva fatta la pasta una volta… mi riferisco al Maccarruni, pasta fatta in casa ottenuta con acqua e farina poi rivoltata e premuta per una buona mezzora con entrambe  le palme delle mani, ‘mpastata per capirci. Una volta impastata la pasta si lasciava riposare avvolta in uno strofinaccio. Dopo poco più di un’ora veniva spianata e filata, dalla filatura si ottenevano così i curdeddi che venivano messe in fila e successivamente cavate. È venuto fuori così il terzo nome cavatuni! Frutto dell’azione del “cavare” (rendere cavo), Il verbo cavari, in dialetto siciliano, indica dunque l’attorcigliare e spianare le curdeddi attorno a un ferro da maglia o a una canna sottile, si ottenevano cosi maccheroni con l’interno cavo, che è essenziale per l’assorbimento del sugo. Una volta ‘cavati’ i maccarruna venivano posti ad asciugare sopra una tovaglia oppure appinnuti (appesi ad asciugare)  prima di essere calati nell’acqua bollente per la cottura che deve avvenire, per non perdere la freschezza, massimo 24 ore dopo.
Le nostre nonne riuscivano a cavare tutti i maccheroni della stessa dimensione o quasi ma, talvolta, qualcuno può venire più curtu e malu cavatu si dice anche di persona bassa di statura e di cattiva indole. Un altro difetto grave del maccarruni è quello di venire senza buco: maccarruni senza pirtusu, appunto ‘senza buco’ (dal franc. pertuis, da cui derivano i verbi mpirtusari e spirtusari).

Per quel che riguarda il condimento mi affido alle mani esperte della mia amica Antonella Scarnà e al suo libro “Sapori e tradizioni di un tempo dimenticato”:

“Sembra quasi che il motto del Carnevale sia di mangiare a crepapelle, prima del periodo della quaresima. Infatti la tradizione vuole che nel nostro Paese, davvero si mangi fino a scoppiare. Iniziamo con un bel sugo di carne; ma attenzione! il nostro non è un sugo di carne qualsiasi. Si tratta di un elaborato sugo, che viene preparato fin dalle prime ore del mattino; è il cosi detto SUCU LURDU. Questa gustosissima pietanza viene preparata utilizzando diversi tipi di carne a pezzo, (vitello, manzo, agnello, salsiccia, cotenna e aggiungendo, a volte, anche i piedi di maiale). La carne viene rosolata con olio d’oliva e aromi prima di immergerla nel sugo.

L’etimologia della parola è controversa, potrebbe derivare dall’aggettivo greco makarios, beato! Dalla radice medesima pare derivino il latino medievale  maccum e il nostro maccu (di favi). Ammaccare è sinonimo di pressare e impastare, in siciliano ammaccari si riferisce anche ai maccheroni che si fanno spianando l’impasto, che altro non è che ammaccare la pasta… buona cena!

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