Appunti di lettura di una libraia
Serena Ferrara
- I moltiplicatori di universi in Testimoni sepolti di Michele Rondelli
Esistono vari modi di leggere un libro. Quello che io preferisco è simile ad una “caccia al tesoro” nella quale gli indizi sono tutti quei riferimenti letterari che mettono le pagine specifiche in connessione con la Letteratura e aiutano il lettore a ricostruire una geografia, o se volete, una “mappa” del senso. I libri che rinviano ad altri libri sono moltiplicatori di universi che rendono la lettura un’esperienza multidimensionale. I libri poggiati sui comodini o nelle librerie dei personaggi sono spesso il motore dell’identificazione del lettore e le citazioni che abbelliscono i dialoghi ci aiutano a comprendere a fondo il carattere del personaggio e la sua motivazione. I riferimenti letterari, inoltre, ci mostrano l’autore e la sua personale geografia del senso come attraverso una lente. Essi sono come piccole esche, delle quali – è inutile dirlo – i veri lettori sono ghiotti. Vediamo, quindi, quali sono “i libri nel libro” in Testimoni sepolti, di Michele Rondelli.
- Politica, mafia e lotta di classe nel meridione d’Italia
Ruggero De Robertis, voce narrante del romanzo, è un giornalista “scomodo” per aver già scritto di fatti mafiosi ed aver sollevato sospetti su personaggi “intoccabili”. Pertanto viene allontanato da Palermo e inviato a scrivere di alcuni delitti occorsi a Calarmena, in provincia di Agrigento. L’incarico gli offrirà l’occasione di ritrovare il vecchio compagno di studi Paolo Lo Groi e di conoscere la bella e misteriosa locandiera Rosa che, tra confidenze e distrazioni sensuali, avrà un ruolo determinante nello sviluppo delle sue indagini. Durante il suo primo viaggio in treno verso Calarmena, De Robertis legge I giuochi della vita di Grazia Deledda, raccolta di 11 novelle scritte tra il 1901 e il 1905, in cui l’autrice italiana (Premio Nobel per la Letteratura nel 1926), racconta uno spaccato di vita cittadina e paesana dominato da istinti primari e passioni incontrollabili ai quali fanno da contraltare pensieri e conflitti rimossi, in un continuo confronto tra vita e morte. Con questa citazione, l’autore ci introduce al mondo arcaico, passionale e violento che De Robertis si accinge ad indagare e, attraverso l’originale cifra stilistica di Grazia Deledda (talvolta ascritta al Verismo, talaltra al Decadentismo e certamente riconducibile alla letteratura russa) ci offre le categorie città/paese, azione/rimozione, peccato/colpa, bene/male come altrettanti ganci semantici con cui interpretare l’ambiente naturale e sociale di Calarmena.
Nel dialogo con il delegato Luigi Barbagallo è fortissima l’eco del celebre brano de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia (1961) in cui il Padrino esprime il proprio rispetto per il Capitano. Il delegato Barbagallo, che per ovvie ragioni cronologiche non può aver letto il romanzo di Sciascia, anticipa il monologo del Padrino dividendo l’umanità in babbi, babbi sperti, padri di famiglia, onesti disonesti e disonesti onesti. Più volte, nel romanzo, Barbagallo esprimerà con amarezza il punto di vista dell’uomo di Stato impotente innanzi alle innumerevoli collusioni tra mafia e politica.
Al termine della propria indagine, quando ormai le responsabilità nei fatti di Calarmena gli saranno chiare, De Robertis non si accontenterà del racconto biblico di Caino e Abele o della leggenda di Romolo e Remo (entrambi citati da Filippo Pagano) né del riferimento ad Abramo e Lot da parte di Lo Groi, ma attingerà al mito greco di Eteocle e Polinice, i due fratelli tebani (figli di Edipo e Giocasta e fratelli di Antigone e Ismene) che si erano accordati per regnare un anno ciascuno su Tebe, ed essendo Eteocle venuto meno all’accordo, si uccisero reciprocamente in battaglia (vicenda narrata nella tragedia di Eschilo I Sette contro Tebe). Il riferimento non può che richiamare alla mente del lettore anche la successiva tragedia di Sofocle, nella quale sarà la sorella dei due, Antigone, ad opporsi da sola al potere di Creonte.
Poco prima del disastro della miniera, Don Carmelo Pagano ottiene da sua moglie in fin di vita, che da tempo si rifiuta di riceverlo, il permesso di farle visita. Clelia, colta e raffinata, mostra profonda ammirazione e affetto per Anna, la figlia illegittima di Don Carmelo. Lei che è sopravvissuta all’infelicità coniugale trovando conforto nella cura della biblioteca di famiglia, è felice di sapere che la ragazza sia un’instancabile lettrice e potenziale scrittrice. “Sembra più figlia mia che tua”, dice a Don Carmelo, confermando l’esistenza di una tacita alleanza tra le due protagoniste femminili del romanzo. Clelia chiede che, alla sua morte, le venga messa l’edizione Treves del suo romanzo preferito, I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello (1913), che nella finzione è un suo amico. Protagonista del romanzo sociale pirandelliano è la Sicilia dei sanguinosi moti dei Fasci siciliani del 1893, sconvolta da opposti ideali che si materializzano nel contrasto tra due generazioni: quella che ha fatto l’Unità e vede perduta l’eredità del Risorgimento, e quella più giovane che nel conservatorismo dei padri scorge la difesa di interessi reazionari. Questa citazione suggerisce un parallelismo tra la repressione dei moti siciliani da parte dei proprietari terrieri (con la complicità dello Stato) e la morte dei minatori provocata dalla chiusura delle porte (non senza la complicità di rappresentanti delle istituzioni).
Se per don Carmelo Pagano Newark rappresenta ancora la via di fuga, il luogo in cui rifugiarsi con la nuova famiglia per fuggire alle macchinazioni dei due figli maschi e di Lo Groi, il toponimo non può che rinviare il lettore alla Pastorale americana di Philip Roth, laddove l’idealizzazione dell’America, il cosiddetto “sogno americano”, va letteralmente in frantumi sotto la spinta (auto)distruttiva di una figlia che, insofferente all’ideale di perfezione borghese dei genitori, cerca la propria strada nell’estremismo politico.
- L’eroe romantico
Giunto sul luogo del disastro, De Robertis apprende che anche il giovanissimo Vincenzo Bufera è rimasto intrappolato nella miniera. Vincenzino è il vero eroe romantico della vicenda: egli trova nei ricordi e nei sentimenti la propria motivazione ad agire
Vossìa non può immaginare quante legnate ho preso da piccolo a causa di quel pane (…) Quel pane lasciato nella camella in realtà serve a fare ‘ncarnare i bambini, abituarli all’odore del surfaro, dello zolfo. I padri fanno questo perché i figli, spinti dalla fame, che da queste parti non manca mai, lo mangiano con gusto. È così che la zolfara a poco a poco gli entra nel sangue. Io invece quel pane non lo riuscivo a inghiottire e quando mio padre me lo voleva fare mangiare a forza, lo sputavo (p. 24)
Inoltre, Vincenzino si oppone al proprio Destino di minatore, presagisce la Morte:
“Mamma nun mi mannati a la pirrera, ca notti e jurnu mi pigliu turrura…” (p. 26)
evoca immagini bucoliche in contrasto con l’inferno della miniera, entra in contatto con l’Aldilà, resta in vita grazie al desiderio dell’Amata.
Non è un caso che il primo riferimento letterario di Vincenzino siano le Opere Complete di William Shakespeare ricevute in dono da un minatore e che lui dona, a sua volta, ad Annuzza, la ragazza bellissima come sua madre, “mezza fortunata e mezza disperata”, che ha in casa “più di venti libri” e va a scuola dal prete.
Il secondo non può che essere la Divina Commedia di Dante Alighieri. Mentre si muove tra i corpi dei minatori, Vincenzino si sente come Dante che attraversa la pianura di tombe infuocate della città di Dite. È il X Canto dell’Inferno, il sesto cerchio, dove sono puniti gli eretici epicurei che in vita non credettero all’esistenza dell’aldilà. Tra loro, Dante incontra Cavalcante dei Cavalcanti e Farinata degli Uberti, entrambi filosofi e militanti nelle opposte fazioni dei guelfi (il primo) e dei ghibellini (il secondo). Quando le gallerie chiuse vengono allagate e Vincenzino teme di morire annegato, si sente immerso come Dante giunto sulla cima del Purgatorio (XXVIII Canto), immerso nel fiume Lete, il fiume dell’oblio che fa dimenticare il male commesso prima di accedere al Paradiso.
- Sentimenti, eros e letteratura
Sempre più convinta che Vincenzino sia morto, Anna si identifica con Elisabetta da Messina, la protagonista della novella del Decameron di Boccaccio narrata da Filomena. I fratelli di Elisabetta uccidono il suo amante e le fanno credere di averlo mandato a svolgere un servizio, ma Lorenzo le compare in sogno e svela il luogo in cui è stato sepolto. Elisabetta trova il corpo, tiene per sé la testa, la nasconde in un vaso nel quale coltiva del basilico e ogni giorno lo annaffia con le sue lacrime. Ma i fratelli scoprono il suo segreto, se ne disfano e fuggono a Napoli. Elisabetta si ammala e muore per il dolore.
Tuttavia, quando don Carmelo va a comunicarle che Vincenzo è vivo, Anna sta già leggendo un romanzo preso dalla biblioteca di Clelia, della quale lei vorrebbe continuare l’opera di archiviazione. Il Romanzo, che fa eco a I vecchi e i giovani, è i Viceré di Federico De Roberto (1894), l’epopea degli Uzeda, sullo sfondo del Risorgimento italiano e dell’Unificazione, narrata con accenti forti e disillusi sulla politica italiana.
“Era riversa, indocile la signora Clelia”, dice Anna, suggerendoci di guardare in controluce questo personaggio apparentemente secondario. D’altra parte, se la biblioteca di Clelia ricorda il “camerone” del romanzo pirandelliano – metafora della tradizione che si scontra con la violenza di una nuova generazione incapace di apprezzarne il valore – nella concezione pirandelliana realtà e apparenza si confondono continuamente. Allo stesso modo la biblioteca si rivelerà essere il luogo “segreto” nel quale Clelia porta avanti la propria rivoluzione privata. Nascosti dietro un volume di poesie di Garcilaso de la Vega, esponente del rinascimento castigliano che si ispirò a Petrarca e fece proprio il tema dell’Arcadia, si trovano infatti i suoi cinque romanzi erotici, frutto dei tentativi falliti di scrivere romanzi naturalisti ed espressione della propria sensualità mortificata dai tradimenti del marito.
L’espediente narrativo dei romanzi nascosti (pubblicati successivamente da Anna) consente di identificare Clelia con due scrittrici: Maria Messina e Anaïs Nine. La prima, autrice del romanzo L’amore negato (1928), fu una scrittrice siciliana, amica di Giovanni Verga, con il quale intrattenne una fitta corrispondenza. Nei suoi romanzi, riscoperti negli anni Ottanta da Leonardo Sciascia e pubblicati da Sellerio, il tema della “sorte” che caratterizza il realismo letterario siciliano assume la forma dell’isolamento e della sottomissione delle donne siciliane nelle relazioni sentimentali e il pessimismo lascia poco spazio alle aspirazioni e alla ribellione, che pure s’intravedono come condizioni psicologiche delle sue eroine. La seconda, scrittrice affermata e amante dello scrittore Henry Miller, è nota soprattutto per il suo Diario, raccolta di scritti autobiografici che va dal 1931 al 1966, in cui molto spazio è dato al triangolo amoroso con Miller e sua moglie June. In realtà Nine aveva cominciato a scrivere il diario all’età di 11 anni e non smise mai di aggiornarlo, fino alla sua morte, considerandolo la forma letteraria a lei più congeniale. L’opera fu pubblicata in una versione censurata, perché la stessa Nine aveva disposto che la versione integrale uscisse solo dopo la morte del marito.
In modo analogo, Clelia ordina al marito di distruggere i suoi romanzi. Sarà Anna – e qui tornerei ad Antigone – a salvare i cinque romanzi erotici di Clelia dalla rovina cui è destinata la biblioteca/camerone, a tradurli e pubblicarli con uno pseudonimo, dando corso (sullo sfondo del fallimento della lotta di classe e della politica italiana) alla lenta, costante, discreta, necessaria rivoluzione culturale delle donne contro le convenzioni sociali e la corruzione del potere.